Quel dono totale per un mondo fraterno: l’omelia del Vescovo per la festa del Corpus Domini

E’ una ricca catechesi sul significato dell’Eucaristia quella che ha fatto il vescovo Michele domenica scorsa, solennità del Corpus Domini, nell’omelia della messa in cattedrale. Una riflessione su quel dono di sé da parte del Figlio dell’uomo che, se assimilato, è fonte della vita. Ed è esempio per tutti i sacrifici, assunti e offerti per amore, dai credenti di ogni epoca, come è stato anche per la “rinuncia all’Eucaristia in questo tempo inedito”.
Ricordando come tutto il capitolo sesto del Vangelo di Giovanni racconti ciò che è in gioco nell’Eucaristia, per la vita dei cristiani e del mondo, il Vescovo ha sottolineato come sia il Signore “l’unico in grado di mettere in moto quelle energie e quelle forze che portano a sfamare le genti. È quello che vorremmo anche come Chiesa – ha sottolineato il Vescovo -, contribuire alla costruzione di un mondo più giusto, solidale, fraterno”.

La strada indicata

E Gesù ci mostra la strada per realizzare questa visione, un mondo pacificato e redento, fatto di fratelli e sorelle: “E’ possibile una vita nuova assieme a Lui, seguendo Lui. Lui ci porta a uno sguardo in profondità che ci fa comprendere che quel mondo non è il frutto di un qualche percorso tecnico, di un metodo economico e sociale che saprà mettere a posto le cose: troppe utopie hanno creduto di poterlo fare, nella storia recente. Lo sguardo – ha ricordato mons. Tomasi – che ci permette di cogliere la via d’accesso al mistero di vita che il Signore ci svela è la visione terribile e vertiginosa del Figlio dell’uomo che muore, inchiodato sulla croce, con il costato trafitto, da cui scaturiscono acqua e sangue. Da lì scaturisce la vita sacramentale della Chiesa, da lì la sorgente viva dell’Eucaristia”.

Un sacrificio sofferto

Ricordando “l’esperienza dura di questo tempo, in cui abbiamo vissuto celebrazioni «mutilate»”, il Vescovo ha sottolineato che “tutto il desiderio, il vuoto, la nostalgia, il bisogno di cibarsi di lui sono diventati quasi materia dell’Eucaristia stessa. Si è trattato di un vero dolore, che è stato allo stesso tempo, però, veramente partecipazione al completamento del sacrificio di Cristo. Il sacrificio dell’assenza, imposto ai fedeli per assumersi la propria parte nella cura di tutti, è stato grande sacrificio assunto e offerto. È stato parte significativa dell’esperienza e della sequela del Cristo Crocifisso e Risorto. La solitudine, l’abbandono che tanti hanno sofferto erano già stati assunti nella solitudine e nell’abbandono del Crocifisso, e sono già redenti e glorificati nel corpo glorioso del Risorto”. Se è così, paradossalmente, tutto ciò non è stato invano, ha ricordato il Vescovo. “«Fare la comunione» significa fare propria la vita stessa di Cristo, fare proprio il dono della vita che è proprio di Cristo. Passaggio necessario verso un mondo nuovo. Conversione richiesta ai cristiani”.

La riscoperta del «noi»

“«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6,56). Ecco il vero fondamento della «riscoperta del noi» cui anche l’esperienza della pandemia potrebbe averci condotti. La reciproca inabitazione è caratteristica paradossale, ma reale, della vera relazione. Io assimilo il Signore e lui assimila me. Lui sta tutto in me, io sto tutto in Lui. E’ ciò che avviene in ogni vera relazione di amore, è la dinamica stessa della vita che cresce solo nella continua rincorsa al dono reciproco. Solo con lui possiamo essere «membra gli uni degli altri» (Rom 12, 5). E’ solo se accetto questo dono e di ridonarmi a mia volta che Cristo si fa pienamente presente, con il suo corpo che è la Chiesa, nella storia, in pienezza. Ecco la reciproca inabitazione di Cristo e dei suoi discepoli. Ecco il fondamento di ogni relazione”.
“La vera processione – di cui quella cui oggi rinunciamo sarebbe stata un segno – sarà fatta da cristiani che abitano gli uni negli altri, che permettono cioè agli altri di fiorire e di vivere in pienezza, con la solidarietà economica, con la cura reciproca, con il dono pieno di sé, con relazioni autentiche, con ascolto profondo, senza giudizi, rigenerante, con accoglienza piena di tutta la persona e di ogni persona, da cristiani pronti a farsi inchiodare sulla croce, a lasciarsi trafiggere il cuore per il bene incondizionato degli altri. Questa uscita da sé verso gli altri, dal proprio interesse verso il bene comune, questa vera testimonianza, questo autentico martirio sono processione eucaristica, vita eucaristica, principio di vita nuova, di vita eterna, di vita in pienezza” ha ricordato mons. Tomasi.
Non una strada facile, certo, ma “possibile solo assieme al Signore Gesù, ed è ciò che Egli si aspetta da noi. Abbiamo avuto l’evidenza di quanto ciò ci sia necessario, paradossalmente, nella lunga separazione imposta dalla cura di sé e degli altri. Ci viene donato di provarci, ora”. Dopo questi discorsi molti se ne vanno, tra i discepoli, perché è una parola dura – ha sottolineato il Vescovo -, che richiede una scelta di fondo: a chi affido la mia vita? E agli apostoli Gesù chiede se vogliono andarsene anche loro. “Io prego perché possiamo fare nostra la stupenda risposta di Pietro, magari anche lui frastornato – come noi – dal cambio di prospettiva che viene chiesto. Forse anche lui non ha capito molto. Ma è proprio lui il fondamento su cui è costruita la Chiesa, e questo anche grazie alla sua risposta: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,67)”.

(Diocesi di Treviso)

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