Un cammino che continua nella fiducia e nella speranza

E’ uscita da un paio di settimane la nuova Lettera pastorale del vescovo Michele, dal titolo “Un cuore in ascolto – Un cuore che arde”. Un contributo importante per accompagnare il nuovo tempo del Cammino sinodale, la cosiddetta Fase sapienziale. Abbiamo incontrato mons. Tomasi per chiedergli di condividere alcune riflessioni sul cammino che abbiamo intrapreso e per “presentare” il testo ai nostri lettori.

Con quale spirito ha scritto e ci ha consegnato questa nuova Lettera pastorale, la quarta del suo ministero tra noi?

Con il desiderio di rimotivare a quel cambio di stile al quale cerchiamo di dare corpo con il Cammino sinodale, che è partito con i due anni di ascolto – che già qualche novità, soprattutto nell’atteggiamento, hanno generato -, e per continuare insieme nel percorso intrapreso dalla Chiesa italiana, nella fase sapienziale, per poi arrivare alla scelta delle priorità, con alcune decisioni che saranno prese nella fase profetica. Desidero accompagnare quel cambiamento di stile che, quando viene assunto, mostra di essere fecondo di iniziative, di risposta. Ma questo stile, essendo una novità, costa fatica: molti non la capiscono, o non vogliono farla, questa fatica, ma è esattamente ciò che ci chiede la sinodalità, di cui ogni comunità è chiamata a farsi carico. Ecco, penso sia mio compito, più che dare indicazioni pratiche, motivare e aiutare ad andare alla radice di ciò che ci serve, e ricordare come, in questo cammino, abbiamo la possibilità di rivivere in modo sempre nuovo l’incontro con Gesù Cristo.

Nella presentazione lei sottolinea l’importanza di partire dalla nostra esperienza, per vivere l’ascolto reciproco e il discernimento. Quanto è importante questo modo di procedere nel cammino che stiamo facendo?

E’ fondamentale, altrimenti si fa qualcosa che non è vita, e non è vita cristiana. La grande convinzione delle persone di fede è che l’incontro con Gesù Cristo dia senso e trasformi la vita. E questo incontro avviene nella nostra vita, che viviamo nelle occupazioni di ogni giorno, nella famiglia, nel lavoro, nella dimensione quotidiana e nelle tragedie della storia, come la guerra e i cambiamenti climatici, in quegli ambiti che non sono “accessori” rispetto alla fede, ma sono i luoghi nei quali i cristiani non possono che vivere da discepoli di Cristo. Per questo dobbiamo darci il tempo di incontrarlo e di capire come lo seguiamo, mettendo alla prova gli stili delle nostre comunità, del nostro stare insieme. Noi riceviamo stimoli e valori da molte parti, ma non tutti sono evangelici. A volte abbiamo stili di vita dettati più dalle parole d’ordine dell’individualismo e del consumismo, che della comunione e dell’amore reciproco. E allora dobbiamo tornare sulle questioni fondamentali: perché continuiamo a dirci cristiani, in un mondo che sembra dirci che non serve? Quale amore ci spinge? E’ bene che questa dimensione venga pensata, accolta, raccontata e testimoniata.

La Lettera, a partire dal titolo, insiste sulla dimensione del “cuore”, a partire da due racconti biblici: la figura di Salomone e i discepoli di Emmaus. Perché questa scelta?

Avevo il desiderio di spiegare alcuni termini che usiamo, come sapienza e discernimento, perché non rimangano slogan. Per parlare di discernimento ho pensato a Salomone, per dare un’indicazione sulla sapienza (“Dammi un cuore che ascolta”). L’icona biblica dei discepoli di Emmaus (“Non ci ardeva, forse, il cuore?”), invece, è stata scelta dai Vescovi italiani per accompagnare quest’anno del Cammino sinodale, ma ha fatto da guida anche nel Cammino sinodale della Chiesa di Treviso, prima che io arrivassi. Si tratta di un testo molto noto e inesauribile, che affronto con occhi nuovi. In entrambi c’è questa dimensione del cuore, che torna, una consonanza. Il cuore è il nucleo, l’essenziale, ma è anche ciò che scalda, che dice la passione, qualcosa che mi sta a cuore, che dice, per tutta la tradizione biblica, la sintesi tra intelligenza e sentimento, ed è il principio che poi dà luogo alla decisione che porta all’azione. Il titolo tiene insieme queste due dimensioni, dell’ascolto e dell’apertura, dell’intelligenza, della sintesi sapienziale, ma anche quella della passione, del motore: nel momento in cui senti che arde il cuore, hai un motivo per darti da fare e per vivere. Collegandomi alla questione del titolo, vorrei ringraziare quanti hanno lavorato alla veste grafica della Lettera, che hanno creato i disegni, che hanno accostato testi e immagini: lo ritengo una riflessione ulteriore sulle parole della Lettera.

Sono stati due anni intensi di ascolto quelli trascorsi. Ritiene che la risposta sia stata buona da parte delle nostre comunità? E che tante persone si siano sentite coinvolte?

Direi che ci sono state tante persone grate per questo percorso e tante che ancora non sanno che siamo in Cammino sinodale, perché non interessate, o perché chi avrebbe potuto non si è mosso per interessarle, e questo perché ci sono delle resistenze al cambiamento, o non si capisce che cosa significhi stare a riflettere continuamente, senza decidere. E’ un percorso che vede molti impegnati, non so se siano una maggioranza, spero non uno sparuto gruppo. Vedo cose molto consolanti e cose che mi permettono di vedere i passi futuri della Chiesa trevigiana con una certa sobrietà.

Tra le “consolazioni” che cosa mette?

Molto consolante è stata la risposta, così come le reazioni, alla giornata di formazione dei Consigli pastorali, vissuta in contemporanea nei 14 vicariati. Ho avuto tanti riscontri di gioia di persone che si sono potute confrontare su temi che hanno a che fare con l’esistenza, che hanno apprezzato le modalità e il fatto di trovarsi insieme, anche in una semplice convivialità, di essersi dati un tempo per riflettere, di essere stati presi sul serio, nella preparazione e nell’organizzazione. Credo che tra le persone che si impegnano nelle nostre comunità ci sia questa voglia di continuare ad approfondire la propria fede e anche lo stupore gioioso di essere in cammino con tanti altri. Significa che si sta muovendo molto, in un contesto che rimane quello di una secolarizzazione forte. Da questo punto di vista, ho la fiducia e la certezza che siamo sulla strada giusta e che dovremo fare le fatiche del coinvolgimento di tutti. Al di là della complessità e di possibili rallentamenti, il fine di tutto questo è essere Chiesa, trovarsi come comunità. Essere Chiesa non è “fare” qualcosa, ma essere convocati come assemblea santa di Dio, è lo stare insieme da discepoli. E come stiamo insieme è decisivo: se siamo in comunione, in buone relazioni, se costruiamo, se accogliamo, non se siamo omologabili al consiglio di amministrazione di un’azienda. Altri esempi sono il modo di partecipazione ai Consigli diocesani e l’esperienza di molte realtà parrocchiali che visito e incontro, dove si vive un’esperienza di sintesi bella. Un elemento di grande fiducia per il futuro del nostro cammino è stata per me un’esperienza completamente diversa: la Peregrinatio di san Pio X, per la risposta della gente, per la modalità con cui questo tranquillo ma felice popolo di Dio si è radunato e si è lasciato toccare dalla figura di Pio X vista attraverso le lenti del magistero di papa Francesco. La risposta che c’è stata, il bisogno di trovarsi insieme, la bellezza di camminare, di pregare, di fare cose semplici ma profonde e autentiche: lì ho visto la dimensione autenticamente popolare della nostra diocesi, in senso positivo: un popolo che è radicato in una storia, e che la vive oggi, cercando un senso per tutte le fatiche e gli impegni della vita.

E la sobrietà rispetto ai passi futuri della nostra Chiesa, dove la individua?

In questo cammino di discernimento spirituale sulle priorità da individuare, facciamo fatica a non confondere l’essenza dell’essere Chiesa con le forme che possono e debbono anche cambiare. L’essenza è scoprire che cosa di Gesù Cristo mi fa continuare a essere parte della Chiesa, e come mi incontro, con lui e con gli altri, nella Chiesa: questo è il cuore della riflessione sulla Pasqua che faccio nella Lettera. Poi, però, ci sono delle forme che non sono le stesse con cui facevamo comunità dieci anni fa. Dobbiamo riuscire a cambiare. E qui vedo alcune grandi fatiche. Perché è vero che non esiste una Chiesa cattolica senza sacerdoti, ma non tutto quello che abbiamo chiesto al sacerdote fino ad ora è donato con il sacramento dell’Ordine. Buona parte di quello che chiediamo ai preti è dato col Battesimo, e quello ce l’abbiamo tutti. Adesso, poi, stiamo finalmente cominciando a parlare delle Collaborazioni pastorali come grammatica comune, perché sembra che si sia accettato che questo è il percorso della diocesi. Certo, però, non stiamo facendo dei passi veloci verso Collaborazioni pastorali vitali: su questo abbiamo tanto da lavorare, con pazienza, perché non si cambiano le strutture mentali e affettive solo dicendolo. Abbiamo bisogno di un sovrappiù di fiducia, perché dall’iniziale fatica poi si scopre un “guadagno” a collaborare con le altre comunità. E quindi, direi una “sobrietà” intesa non come paura o disillusione, ma come consapevolezza che sono cammini che comportano una certa fatica.

Una fatica che a volte vivono sia le comunità che i sacerdoti…

Dobbiamo chiederci come si manifesta la fede in Gesù Cristo. Se dimentichiamo questo nucleo non riusciamo a rivitalizzare le cose. Lo si può fare in maniera molto semplice, ma ci deve essere un’esperienza dove le persone si sentono accolte e volute bene, e questo può nascere solo perché credi nel Risorto, perché metti il Vangelo come luce sul tuo cammino. E’ una modalità di relazione che diventa feconda e portante finché la provi, ma per provarla, specie in un tempo come il nostro, devi rischiare. Certo, quando inizi a farla trovi, insieme ai benefici, le persecuzioni, ma scopri che non puoi farne a meno. Malgrado tutto, malgrado la narrazione pessimistica, la mormorazione, alla fine le persone danno la risposta di Pietro: Dove vuoi che andiamo? Tu hai parole che danno vita e sono di vita eterna. Questa è la dimensione fondamentale, che poi si manifesta nella costruzione di forme comunitarie che permettano ai preti di viverle bene e ai fedeli di partecipare. Per questo ci sarà bisogno di un calo del sovraccarico di lavoro usurante, che viene vissuto nelle comunità dai presbiteri e anche da tanti laici. Non si tratta di fare molte cose, ma di fare con gusto le esperienze fondamentali della vita, che sono quelle del trovarsi, del lodare, del ringraziare, del pregare, del fare festa insieme, del prendersi cura gli uni degli altri. E questa è la traduzione dei tre compiti della Chiesa: l’annuncio, la liturgia e la carità, dimensioni che possiamo articolare in tanti modi diversi. Mi permetto di suggerire di chiederci se davvero siamo disposti a credere che il Signore è risorto. Perché se crediamo questo, cambia tutto, altrimenti è dura vivere da cristiani. Nella Lettera presento gli incontri dei discepoli col Risorto: essi raccontano che hanno incontrato un vivente, e noi dobbiamo credere a loro. Questo pian piano cambia anche lo sguardo e l’esperienza: significa che nella prova, anche nel momento in cui mi mancano cose essenziali della vita, quando muore una persona cara, quando c’è un sovvertimento, una malattia, dobbiamo riuscire, proprio lì dentro, a non perdere il senso di una prospettiva che è necessariamente più ampia di quella della vita terrena. E la promessa che è insita nella risurrezione, di fronte allo scandalo della morte, ci dice che la morte non è l’ultima parola, perché alla fine abbiamo bisogno di qualcosa che ci salvi, che ci faccia vivere.

L’ultimo capitolo della Lettera lo dedica alle esperienze di viaggio fatte quest’anno, nelle missioni in America Latina, a Roma con i cresimati, a Lourdes, alla Gmg, i viaggi per preparare la Settimana sociale nazionale e poi i tanti incontri nelle parrocchie. Perché questa scelta? Qual è il filo conduttore?

Io non amo viaggiare, ma ho voluto essere presente con la mia responsabilità in realtà che ho pensato fosse bene abitare e raggiungere. Ogni volta ho toccato con mano la pienezza di una esperienza di Chiesa che fa bene a tutta la Chiesa e che è possibile ad ogni comunità fare percorsi analoghi: toccare la dimensione missionaria, sapere di essere mandati ad annunciare il Vangelo, la dimensione dell’iniziazione cristiana, dell’accoglienza di nuovi membri nella Chiesa, una presenza nella Chiesa gioiosa, l’esperienza con i giovani che hanno bisogno di avere prospettive ampie, che nel corso degli anni gli abbiamo chiuso, l’esperienza della sofferenza, della malattia, ma vissuta nella speranza di Cristo e di sua madre che si fanno vicini e ci accompagnano. E poi la dimensione della quotidianità: l’incontro con le comunità, in momenti per loro significativi. Ho visto che sentirsi uniti al proprio Vescovo fa fare un po’ di esperienza di Chiesa in più, e io vivo il desiderio, il sogno, la nostalgia di questa sintesi, che è anche il frutto del Cammino sinodale, che deve vedere se ci sono le condizioni di possibilità per convertirsi nei vari ambiti. Ho raccontato la mia esperienza per condividerla, perché è una lettera a degli amici, dove racconto quello che è stato importante per me durante quest’anno.

Che cosa vorrebbe dire alle comunità che si apprestano a vivere il discernimento previsto da questo anno sapienziale?

Di non aver paura di discernere, di lasciarsi interrogare dalla Parola di Dio, di non aver paura della realtà, ma di guardare le cose, le situazioni con lo sguardo di Dio. Poi si sceglierà il bene maggiore, tra le cose importanti e buone che emergeranno.

a cura di Alessandra Cecchin

(intervista pubblicata nella Vita del popolo del 17 dicembre 2023)

(Diocesi di Treviso)

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