“Liberarsi di ciò che divide e abbracciarsi è la volontà di Dio”. Così il card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, intervenendo martedì 2 dicembre a Venezia per il 60° anniversario della reciproca abolizione delle scomuniche tra Roma e Costantinopoli.
L’evento di carattere ecumenico era organizzato dall’Ufficio Nazionale per l’Ecumenismo ed il Dialogo della Cei e dalla Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia con la presenza di rappresentanti delle comunità cristiane cattoliche, ortodosse e protestanti. Nella Chiesa di San Zaccaria, dopo un momento introduttivo, si è tenuta la celebrazione che ha visto l’intervento del Metropolita Polycarpos. Successivamente ci si è recati nella Cattedrale di San Giorgio dei Greci dove il card. Zuppi ha proposto la sua riflessione. Sono seguiti la Professione di fede, la lettura della Dichiarazione congiunta, lo scambio della pace e la benedizione.
Foto Malavasi (Gente Veneta)
Il cardinale Zuppi ha ricordato che il 7 dicembre 1965 san Paolo VI e il patriarca Atenagora firmarono l’estinzione delle scomuniche e che la Dichiarazione comune mirava a “togliere dalla memoria e nel mezzo della Chiesa le sentenze di scomunica dell’anno 1054”. Richiamando l’incontro tra Papa Leone XIV e il patriarca Bartolomeo I, Zuppi ha evidenziato che quel viaggio conferma “questo nostro incontro”. Ha poi riproposto le parole di Atenagora: “Il passato vive in noi, per questo dovevamo cancellare il brutto passato, o piuttosto permettere a Dio di cancellarlo, perché provocava l’odio in noi”. E ancora: “La revoca degli anatemi ha costituito l’atto esemplare di un nuovo approccio all’unione”. Il cardinale ha citato anche lo scambio tra Paolo VI e Atenagora, quando il patriarca disse di essere “profondamente commosso” e il Papa rispose: “Siccome questo è un vero momento di Dio, dobbiamo viverlo con tutta l’intensità”. Il cardinale ha ricordato che Paolo VI definì cattolici e ortodossi “Chiese sorelle” chiamate a “condurre a pienezza e perfezione la comunione”. Zuppi ha ribadito che “l’unità cristiana non è un lusso, ma l’ultima preghiera di nostro Signore Gesù Cristo”, invitando a camminare “con ferma determinazione sulla via del dialogo, nell’amore e nella verità”.
La “vocazione ecumenica” di Venezia “può oggi diventare segno profetico per il nostro tempo in cui l’umanità avverte nuovamente necessità di ponti, di riconciliazione, di pace”, ha detto mons. Francesco Moraglia, patriarca della diocesi lagunare, nel suo intervento. Il patriarca ha inaugurato l’incontro nella chiesa di San Zaccaria che custodisce il corpo di Sant’Atanasio, “che tanto contribuì alla formulazione del Simbolo di Nicea” e che “ci ricorda che l’unità della Chiesa nasce e si fonda nella verità di Cristo, confessata insieme e vissuta nella carità. E mentre quest’anno celebriamo il 1700° anniversario del Concilio di Nicea (325–2025), questo riferimento diventa ancora più carico di significato – ha concluso Moraglia -: ci richiama a tornare alle radici comuni della nostra fede, a quel Credo che unisce cattolici e ortodossi nel riconoscimento del Figlio unigenito, ‘Dio da Dio, luce da luce’”. Moraglia ha richiamato la vocazione della città, “ponte fra Oriente e Occidente”, dove le differenze “non si sono cancellate ma incontrate” diventando occasione di arricchimento. In riferimento all’Annunciazione, il patriarca ha indicato in Maria “il paradigma dell’incontro, l’immagine più alta del dialogo vero”, un ascolto che guida il cammino delle Chiese “a deporre paure e diffidenze” confidando nella grazia. Ha quindi richiamato la presenza in San Zaccaria delle reliquie di sant’Atanasio, “padre comune nella fede”, ricordando il 1700° anniversario del Concilio di Nicea, il cui Credo “unisce cattolici e ortodossi nel riconoscimento del Figlio unigenito”. Moraglia ha auspicato che da Venezia il cammino comune “prosegua con rinnovato vigore”, sostenuto da preghiera e ascolto reciproco, affinché la città sia “ancora una volta segno di pace e di unità per tutti”.
Foto Malavasi (Gente Veneta)
“La sapienza dei Padri ci porta a sollevare lo sguardo verso l’alto, al disopra della polvere della storia e delle fragilità umane”. Così la teologa Viviana De Marco ha introdotto il suo intervento. Ripercorrendo la prospettiva trinitaria del Vaticano II, ha ricordato che l’unità “non è solo una meta da ricercare nel cammino della Chiesa, ma innanzitutto un mistero da contemplare nella SS Trinità” e che l’ecumenismo è suscitato dallo Spirito. Ha richiamato lo storico incontro del 1965, quando Paolo VI e Atenagora “cancellano le scomuniche insieme a 900 anni di diffidenza”, spiegando che non si trattò “di un semplice atto diplomatico, né solo di un atto di revisione storica”, ma “di un’esperienza di reciprocità e misericordia”. De Marco ha ricordato che il dialogo non è “un confronto teorico tra tesi diverse nella modalità del sic et non”, ma un cammino “guidato dall’amore per l’Eucaristia”, dove “la grande Tradizione liturgica e teologica della Chiesa greca diventa così per la Chiesa latina un tesoro immenso”. Quindi ha citato i documenti di Monaco, Creta e Bari e la comune consapevolezza che “l’Eucaristia costituisce il criterio del funzionamento della vita ecclesiale nella sua totalità”. Guardando al presente, De Marco ha parlato di un “silenzio della speranza”, una pausa che invita al discernimento e alla fiducia nell’azione dello Spirito, chiedendo un ecumenismo “di popolo” capace di condividere le sfide del tempo.
“È per me una gioia portare il saluto della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia, che ha la sua sede proprio qui a Venezia”. Con queste parole mons. Athenagoras Fasiolo, vescovo di Terme e ausiliare dell’Arcidiocesi ortodossa d’Italia, ha aperto il suo intervento. Il presule ha definito la ricorrenza “un anniversario di straordinaria importanza”, ricordando che il gesto del 1965 “ha sanato una ferita antica e ha restituito respiro alla comunione ecclesiale”. Quindi ha sottolineato che nel 1054 “si confrontarono allora le sedi, non la Chiesa una e indivisa che professiamo nel Credo” e che i successori, “papa Paolo VI e il patriarca Atenagora – insieme ai successori, papa Leone XIV e il patriarca Bartolomeo – hanno avuto il coraggio di togliere quella infamia”. Richiamando il 1700° anniversario del Concilio di Nicea, Fasiolo ha ricordato come “si sono incontrate le grandi famiglie cristiane”, unite in un pellegrinaggio che ha visto insieme Chiese ortodosse, cattolica, armena, copta, siriaca e comunità occidentali. Ha evocato “un gesto, semplice e potentissimo: il cammino lento dietro il santo Vangelo”, segno di un ecumenismo che è “un cammino senza ritorno”. Il dialogo, ha affermato, “non è un esercizio diplomatico”, ma un incontro in cui “nessuno perde nulla della propria identità”. “In un mondo così diviso”, ha proseguito, la testimonianza delle Chiese “deve essere annunciata con forza”. In questa città “che tanto ha dato all’incontro fra Oriente e Occidente”, Fasiolo ha ricordato anche la figura del card. Roncalli, “un fine conoscitore dell’Oriente”.
“La separazione tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa, conosciuta come Grande Scisma, si verificò nel 1054”, ha spiegato la teologa Elena Boscos nella sua introduzione. Analizzando il percorso storico, ha ricordato che il distacco fu il risultato “di un processo lungo e complesso nato da differenze culturali, teologiche e politiche” e che il nucleo del disaccordo riguardava il Primato del Papa, cui si aggiungeva il Filioque, l’inserimento nel Credo dell’espressione “e dal Figlio”. Ha quindi ripercorso lo scambio delle scomuniche tra il legato papale e il patriarca Michele Cerulario e lo sviluppo distinto delle due Chiese, segnato anche dal dogma dell’Infallibilità e dalla diversa disciplina del clero. Boscos ha però sottolineato che “permangono elementi fondamentali in comune”, ricordando che le due Chiese “si considerano continuazione della Chiesa fondata da Cristo e dagli Apostoli”, condividono fede trinitaria e cristologica, sacramenti e vita liturgica, in cui “Cristo è presente nell’Eucaristia”. La teologa ha richiamato il riavvicinamento del XX secolo e il gesto del 1965, che “rappresentò un passo storico verso il dialogo e il riconoscimento reciproco”. La revoca degli anatemi, ha aggiunto, “non è stata semplicemente un gesto diplomatico, ma un atto di riconciliazione”. Boscos ha concluso affermando che “ciò che unisce la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa è più profondo e più duraturo di ciò che le divide”.
“Il 7 dicembre 1965, nella Basilica di San Pietro a Roma e simultaneamente nella cattedrale patriarcale di San Giorgio a Fanar a Costantinopoli, veniva proclamata la revoca reciproca degli anatemi del 1054”, ha ricordato il metropolita Polykarpos, arcivescovo ortodosso d’Italia ed esarca dell’Europa meridionale. Il presule ha definito quel gesto “un modello di dialogo in un mondo ancora segnato dalle contrapposizioni della Guerra fredda”, sottolineando che contribuì “a plasmare una nuova coscienza ecumenica”. Quindi ha ripercorso il cammino verso la riconciliazione, segnato da tentativi “effimeri”, divisioni teologiche e ferite storiche, ma anche da appelli come l’Enciclica del 1920 che proponeva una “Società delle Chiese cristiane”. Polykarpos ha ricordato l’incontro del 1959, quando Giovanni XXIII assicurò che il dialogo sarebbe stato “frutto di ricerca reciproca, non di invito unilaterale”, e l’abbraccio del 1964, quando Atenagora affermò: “Sappiamo ciò che ci divide, ma sono assai più grandi e importanti le cose che ci uniscono”. Il metropolita ha spiegato che la revoca degli anatemi fu atto “di amore fraterno” e che le Chiese iniziarono a chiamarsi “Chiese sorelle”. Richiamando l’attualità dell’impegno ecumenico, ha ricordato l’incontro recente tra Papa Leone XIV e il patriarca Bartolomeo. Polykarpos ha concluso definendo il gesto del 1965 “un gesto profetico di ciò che l’umanità intera continua a cercare”.
