«Ho iniziato ad occuparmi di persone LGBT+ quando ero ancora cappellano in parrocchia. Un giorno una coppia mi disse che la loro figlia stava pensando di iniziare un percorso di transizione, e desideravano potersi confrontare. Io caddi dalle nuvole, non sapevo come accompagnarli e non riuscii a trovare qualcuno in grado di farlo». È da quel momento che don Luca Lunardon ha iniziato ad approfondire le questioni teologiche e pastorali legate al mondo delle persone LGBT+, fino a conseguire un dottorato a Roma in Teologia morale con una tesi che affronta anche questo tema (“Il principio di pastoralità”, pubblicata nella collana Tesi Gregoriana dalle Edizioni Studium). La scorsa settimana don Luca ha partecipato al pellegrinaggio giubilare delle persone LGBT+ organizzato dall’associazione La Tenda di Gionata.
Don Luca, come hai vissuto il Giubileo e cosa ti ha colpito di più?
«Si è trattato di un pellegrinaggio registrato, come altri di diocesi, movimenti o associazioni che hanno attraversato la Porta Santa. La Tenda di Gionata è un’associazione che promuove formazione e pastorale con cristiani LGBT+ in Italia. Intorno al passaggio della Porta Santa sono stati organizzati altri momenti significativi come la Messa nella chiesa del Gesù presieduta da monsignor Francesco Savino, vicepresidente della Cei. Ma l’esperienza più forte è stata ritrovarci tra preti, suore, genitori che accompagnano questi gruppi. Spesso ci sentiamo soli nelle nostre diocesi di fronte a questo tipo di attenzione, e vederci in tanti e riconoscerci ci ha dato un incoraggiamento enorme».
Dopo quell’incontro in parrocchia, come è proseguito il tuo percorso?
«Durante i corsi a Roma non avevo trovato strumenti sufficienti, per cui, nella ricerca di dottorato, ho cercato di entrare in contatto con gruppi, reti di genitori, operatori pastorali e singole persone per capire cosa vivano effettivamente. La mia impressione è che partire solo a livello teorico non permette di comprendere pienamente: l’unico modo è mettersi a fianco, ascoltare e imparare insieme. Questa esperienza mi ha toccato profondamente: pensando di dover manifestare accoglienza, in realtà mi sono ritrovato io ad essere accolto, nonostante rappresentassi, come prete e teologo, una parte di Chiesa che non sempre sa riconoscere o accompagnare adeguatamente. Perciò, l’esperienza di accoglienza che ho ricevuto da loro, vorrei che potessero trovarla nelle loro comunità».
Quali sono le principali difficoltà che le persone LGBT+ incontrano oggi nelle nostre comunità cristiane e nelle parrocchie?
«Le difficoltà derivano dalla paura di ciò che è diverso, ma è diverso solo perché non ne abbiamo esperienza. Ad esempio, vedendo sempre più coppie omosessuali che vivono alla luce del sole, credo che le loro comunità stiano imparando a conoscere la loro vita. Diverso è invece per le persone trans, dove siamo molto meno attrezzati, anche nel capire le attenzioni da avere, nel linguaggio o riguardo al percorso di transizione. Questa è una realtà sicuramente meno conosciuta».
E quali sono invece le esigenze pastorali più sentite da queste persone e dai sacerdoti che cercano di accompagnarle?
«Per i preti, come per tutti gli operatori pastorali, c’è bisogno di formazione: manca una vera e propria “cassetta degli attrezzi”. Nonostante il documento della Pontificia Commissione Biblica “Che cosa è l’uomo” (2019) abbia affermato che la Scrittura non è sufficiente a fondare la condanna degli atti omosessuali, si stenta a leggere i passi biblici senza le incrostazioni culturali del tempo. Inoltre, il documento della Commissione Teologica Internazionale “Alla ricerca di un’etica universale” (2009) ha liberato la legge naturale da quel “biologismo” spesso usato per motivare la condanna degli atti omosessuali. C’è quindi tutto lo spazio per ripartire dalla vita concreta delle persone ed elaborare un riconoscimento e un servizio del Vangelo anche nella loro vita».
Ma cosa cercano nella Chiesa le persone LGBT+?
«La grande questione è la ricerca della loro vocazione. Se la vocazione è intesa in modo semplicistico con le due vie – o ti sposi o ti fai prete – la loro domanda è: “Ma io sono una persona fuori dal piano di Dio? Sono una persona che non può sentirsi pienamente parte della Chiesa?”. Dovremmo pensare a ministerialità o forme di vita che queste persone possano vivere con tutto il loro essere. Spesso, le associamo a forme più “folcloristiche” come il Pride, ma in realtà il loro vissuto è molto più feriale e quotidiano. Se si ascoltassero le loro vite, la Chiesa potrebbe capire cosa vivono e di cosa hanno bisogno. L’obiettivo non è creare gruppi o percorsi che rischiano di diventare un ghetto, ma far sì che l’atteggiamento delle nostre realtà sia tale da permettere alle persone LGBT+ di dirsi per come sono, e ricevere sostegno per la loro esperienza di fede».
Andrea Frison
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