Le omelie 2020 – Il valore etico del dono. Io sono ciò che dono

Il valore etico del dono. Io sono ciò che dono

Fa piacere poter condividere la sensibilità che l’Associazione ARTI nutre e non esita a mostrare nei confronti dell’uomo. Da quanto è dato di capire, all’Associazione Arti interessa l’uomo. Tutti gli uomini. Tutto l’uomo, nella sua complessità compositiva.

Sotto forma di aforisma, mi è stato assegnato l’argomento: “Il valore etico del dono”. L’aforisma contiene il convincimento che il senso e il dinamismo del donare fa parte del DNA dell’uomo, di ogni uomo. Al limite, chi si sottrae volontariamente dal circuito virtuoso della donazione, convinto che il mondo debba ruotare attorno a lui e che all’umanità lui non debba proprio nulla, dovrebbe interrogarsi sul senso del suo essere uomo.

 A me dunque il compito, arduo e alquanto impegnativo nel suo essere altresì gratificante, di segnalare un possibile percorso formativo al senso etico del dinamismo proprio della donazione, scandito sul tracciato di cinque pietre miliari.

Il punto di partenza del nostro percorso culturale coincide con il coraggio di una ecografia del nostro animo, per vedere di fatto da che cosa è abitato: dall’io ipertrofico al punto che non lascia spazio a null’altro, o da un forte senso dell’alterità e del bisogno di benevolenza nei confronti delle persone che intersecano il nostro vivere quotidiano. A tale riguardo occorre riconoscere che l’uomo, ogni uomo, vive una forte tensione tra la difesa di se stesso fino all’arroccamento in sé, fino cioè a blindarsi in se stesso, e il bisogno vitale del donarsi come un uscire da sé. Quale delle due tendenze, dialettiche, abbia poi il sopravvento nella vita concreta, dipende in gran parte dalla formazione cercata e accolta. Si tratta di una formazione che fa perno su se stesso, sul mito di se stesso egoisticamente perseguito o di una formazione che mira a fare di una persona un altruista, tendenzialmente solidale con le altre persone.

Come si può facilmente constatare, ci sta di mezzo non solo la questione antropologica, bensì anche quella sociologica. In altri termini, se ogni persona umana saggia si pone l’ineludibile interrogativo: “Chi sono io agli occhi miei?”, conseguentemente non può esimersi dal porsi l’interrogativo: “Chi sono gli altri per me?”. Che genere di società sono disposto ad edificare con un mio stesso contributo significativo?

Questa questione, quasi scontata fino a qualche decennio fa, oggi si fa particolarmente acuta, in quanto la cultura di fondo della postmodernità, del postumanesimo e dell’incipiente transumanesimo robotizzato è caratterizzata proprio dall’individualismo tendenzialmente egoista, arrivista, intollerante dell’alterità, indifferente nei riguardi delle povertà di ogni genere, proteso alla creazione del mito di sé. In una cultura dell’individualismo non c’è posto per la cultura della donazione. Tuttavia, pur nella morsa della cultura dell’individualismo dilagante, fa ben sperare quel diffuso volontariato che sente come un bisogno vitale la donazione, quella del tempo, delle risorse, delle competenze, del sangue, degli organi.

In gran parte dipende dallo stato d’animo che caratterizza ogni persona umana. Per comprendere più nitidamente il senso di questa affermazione, mi sia consentito riportare un verbo, nella sua dizione in lingua greca, che gli evangelisti evidenziano nei confronti di Gesù: “splaxnizomai”. Etimologicamente, evoca le viscere materne nell’atto di aprirsi per dare alla luce un figlio. In altre parole, di fronte ad esempio ad una folla affamata o lasciata allo sbando come un gregge senza pastore, o alla morte di una bambina di dodici anni, di un ragazzo portato a sepoltura, all’amico Lazzaro nel sepolcro da quattro giorni, a Gesù si aprì, si spalancò il cuore; si aprirono, si spalancarono le stesse viscere materne! Quella folla, quelle persone morte con i loro familiari sono entrate nel grembo del suo amore, dei suoi interessi. E non gli era più consentito di restarne estraneo. Entra in quella realtà, se ne fa carico, fa dono dei suoi poteri taumaturgici. Si fa cioè Buon Samaritano, quello per intenderci della parabola narrata da Gesù e riportata dall’evangelista Luca, che, profondamente sconvolto nelle sue viscere materne, si prende cura del malcapitato e paga di tasca propria il suo “ricovero” presso una locanda. Questo è l’atteggiamento che sta a fondamento della donazione, perché possa essere considerata come un atto di umanità vera. Questo è il punto di partenza imprescindibile. La prima pietra miliare di una cultura della donazione: chi sono gli altri per me.

Ora ci incamminiamo verso la seconda pietra miliare: il senso e il bisogno vitale della gratuità. L’obiettivo originario della donazione non è la gratificazione personale, ma la soluzione dei problemi degli altri considerati come parte viva della propria famiglia sociale. Ciò significa che la donazione sbilancia il proprio io sul tu che diventa più importante dell’io. Il vertice e la massima intensità raggiungibile sotto questo profilo della donazione che sbilancia l’io sul tu sono dati indubbiamente dalla coniugalità sponsale che, per natura, realizza un “noi”, grazie a tale sbilanciatura, che snerva, stempera, l’io in funzione del tu. Nella sponsalità la donazione non riguarda un bene, come un regalo in oro, un diamante, una villa, una vacanza in paesi esotici, ma il bene della propria persona: gli sposi si fanno dono reciproco della propria persona, con modalità di unidirezionalità senza reversibilità, altrimenti non sarebbe dono, in quanto il dono esige assolutezza incondizionata, persino in caso di mancata gratitudine che il destinatario dovrebbe manifestare al beneficante. La donazione non è legata alla gratificazione come condizione sine qua non. Se poi alla sponsalità uniamo la genitorialità, ancora una volta constatiamo le leggi intrinseche della donazione senza condizioni: i figli cui si è trasmessa la vita possono essere fonte di gratificazioni ma anche causa di grattacapi. Ma i genitori li amano, donandosi a loro, oltre le risposte. Nella pura gratuità.

Terza pietra miliare della donazione perché si possa definire atto squisitamente umano e umanizzante: il senso della libertà, della volontarietà (che evoca anche il senso del volentieri, non di mala voglia o controvoglia). Nessuno può essere costretto alla donazione, che implica una scelta consapevole del valore della donazione, una limpida coscienza di un bene esagito dalla situazione, di una possibilità messa a disposizione, e della ricaduta benefica sul vivere sociale civile. Precisiamo: per essere atto di libertà deve incidere in profondità sull’animo umano, liberandolo da tutti i condizionamenti, dalle stesse attese almeno implicite e sottili di gratificazione. Da questo versante l’atto del donare diventa catartico per lo stesso donante, liberatorio. Solo a queste condizioni il donare è manifestazione dell’amare. Del resto, se non fosse manifestazione di amore, a poco gioverebbe al destinatario della donazione che ha bisogno prima di tutto di sapersi destinatario di una relazione positiva ancor prima che di un intervento in sé, e a nulla al soggetto della donazione che non cresce nella linea dell’umanità. Aggiungiamo una ulteriore osservazione che nasce dall’esperienza: solo se la donazione è atto di amore genera gioia. Allora davvero si verifica il detto di Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35), oltre tutto perché ti sperimenti utile, senti che la tua vita vale per qualcuno, non è insignificante. Per questo, in seguito alla donazione, ad un atto di generosità, ci si sperimenta felici. E viene spontaneo dire a tutti che nel donare è più ciò che si riceve in termini di ricchezza di umanità che ciò che si dona.

La quarta pietra miliare: la consapevolezza che tutti sono nelle condizioni di fare donazione. Basta la disponibilità d’animo. Come a dire che nessuno è tanto povero da non aver nulla da donare o tanto ricco da non aver nulla da ricevere. Suggestivo ed esemplare in proposito è un aneddoto narrato da S. Agostino, per inculcare nei suoi cristiani di Ippona il dovere di dare ognuno un contributo alla edificazione fraterna della comunità. Un ricco, racconta il grande Vescovo, deve attraversare un fiume. È vecchio e acciaccato. Il fiume manca di ponte in quel tratto. Se lo attraversasse a nuoto rischierebbe una polmonite o addirittura di esserne travolto. Fortunatamente nei pressi siché è donazione di se stesso mette il destinatario a suo agio, non gli fa pesare l’atto della donazione, da benefattore senza il quale uno sarebbe spacciato. Dunque, umiliandolo di fatto. La donazione parte dal cuore e lì rimane sepolta. Non ha bisogno di pubblicità. La stessa donazione degli organi, su cui si concentra la riflessione di questo Convegno, ha senso e valore nella misura in cui di fatto segnala partecipazione personale alle vicende di chi ha bisogno di tale donazione.

Dai riferimenti, per flash, alle cinque pietre miliari caratteristiche della logica della donazione – l’alterità, la gratuità, la volontarietà, la disponibilità, l’umiltà -possiamo dedurre una conclusione: la donazione è la quintessenza dell’essere umano in quanto tale. Solo la donazione lo fa sperimentare davvero umano. Questa esperienza ha carattere universale. Oggi diremmo, ad estensione di globalizzazione. Come a dire che nel DNA dell’antropologia è innestato il senso del donare. È dunque espressione di etica, cioè di un comportamento tipico dell’uomo in quanto uomo, indipendentemente dalla cultura e dalla stessa religione di appartenenza. Sta addirittura nel cuore del patrimonio valoriale dell’agire umano degno dell’uomo. 

 

Concludo tentan trovava un povero che viveva di elemosine. Alto di statura. Spalle robuste. Salute in sovrabbondanza. Avvezzo al nuoto. Anche con acque gelide. Il ricco ha bisogno di quelle spalle. Il povero ha bisogno del denaro del ricco. E così e l’uno e l’altro ne hanno tratto beneficio. Uno senza l’altro sarebbe stato nei guai. L’uno per l’altro, sollecitati alla donazione, l’uno delle proprie spalle, l’altro del proprio denaro, sono stati un regalo. Ambedue si sono sentiti utili. E con il beneficio ne hanno conseguito una gratificazione.

In ogni caso, non è detto che chi è povero sotto il profilo economico dia meno sotto il profilo del patrimonio valoriale. Spesso i cosiddetti poveri sono una lezione di vita per chi ha beni in eccedenza, dando esempio di nobiltà con cui affrontano prove durissime imposte loro dalla vita.

Infine, la quinta pietra miliare: l’umiltà. Solo l’umile riconosce di aver tutto ricevuto o, per dirla con Bernanos in “Diario di un curato di campagna” è consapevole che “tutto è grazia”. L’umile si riconosce un dono ricevuto, che lo trascende, e perciò gli viene naturale trasformare se stesso in dono. Trasformare se stesso in dono! È infinitamente di più che fare dono di qualche cosa, anche di prezioso. Potremmo persino affermare che ogni donazione è autentica se è espressione della donazione di se stesso. E proprio perdo di riassumere il mio intervento. Proprio nel capire chi sono gli altri per me e nel predispormi al senso della donazione, di fatto capisco meglio chi sono io: io sono ciò che dono! E nella misura del mio farmi dono mi ritrovo appagato di felicità.

X Giuseppe Zenti
Vescovo di Verona

 

(Diocesi di Verona)

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